venerdì 19 ottobre 2007


La manna di Anna Carollo

Castelbuono è stato sempre un paese artigianale ed agricolo e le colture prevalenti sono state quelle dell’ulivo e del frassino da manna. Oggi, la raccolta della manna è quasi scomparsa, ma qualche decennio fa era un’attività molto redditizia e durava da giugno a settembre. Era necessario, però, che la stagione si presentasse mite ed asciutta.


Questa operazione consisteva nel fare delle incisioni sull’albero con un coltello particolare a forma di falce che, tutte le volte che veniva adoperato, veniva affilato e poi conservato gelosamente. Si cominciava dalla parte inferiore dell’albero, scorticandolo nel punto in cui si doveva “intaccare” e via via le incisioni proseguivano fino alle parti più alte della pianta, che, dalle sue “ferite”, faceva sgorgare il prezioso liquido bianco e dolciastro.

Gli “intaccalora” venivano aiutati dalle donne con appositi strumenti: la “scatola” e la “rasula”. La mano sinistra reggeva la scatola che era di latta, creata dai nostri artigiani lattonieri, e sagomata in modo da poterla appoggiare sul tronco. La mano destra, invece, teneva la rasula, un arnese triangolare di ferro. Nella parte inferiore era tagliente, in modo da poter raschiare bene, mentre nella parte superiore era a mò di chiodo, per potere essere infilata in un manico di legno e, quindi, essere usata più agevolmente.

La parte più pregiata del prodotto raccolto erano i cosiddetti “cannoli”, che erano molto ricercati dai commercianti di manna ed erano, quindi, molto redditizi.
Per tutto il tempo della raccolta, i contadini non si consentivano un giorno di pausa e all’alba erano già in cammino per raggiungere il posto di lavoro.

I più fortunati possedevano una casetta di un solo vano per dormire, altri si costruivano una sorta di capanna a forma di piramide, il cosiddetto “pagliaro”, dove mettevano al riparo il raccolto o ripararsi in caso di un cambiamento di tempo.

Le donne spesso si portavano dietro i figli piccoli, addirittura lattanti, pur di aiutare i mariti, e improvvisavano le amache (naca) per farli dormire.


Quando erano soddisfatti della buona annata, cantavano tutti, giovani e anziani; specie la domenica, giorno di riposo, si organizzavano feste da ballo tra le famiglie del vicinato e si udivano allora bellissimi canti siciliani accompagnati dal suono dell’organetto.

In paese, per le strade, si sentiva “vanniari” continuamente: “a cu avi cannola e manna!”.
Mi è rimasta impressa la voce di “mastru Giuvanninu u Zurcu”, calzolaio che passava giornalmente per vicoli e vicoletti per contrattare l’offerta e, intanto, si spargeva per l’aria quell’odore inteso di manna, che veniva messa ad asciugare fuori, al sole, in appositi asciugatoi di legno.
da: “Le stagioni che rivivono” pag. 34 – Università della Terza Età – Castelbuono – Ed. Le Madonie